È fondamentale per la determinazione del sesso, ma si discute se tra molto – moltissimo – tempo possa non esserlo più con grandi implicazioni per la nostra specie
Da il Post
Per quanto piccolo e diverso dagli altri, il cromosoma Y è fondamentale nella determinazione del sesso degli esseri umani, di molti altri mammiferi e perfino di alcuni insetti. Quando è presente, alcuni suoi geni determinano lo sviluppo del sesso maschile (XY) rispetto a quello femminile (XX), ma nonostante il ruolo centrale per la nostra esistenza sappiamo ancora relativamente poco di questo particolare cromosoma. A dirla tutta, non sappiamo nemmeno se continuerà a farci compagnia per sempre: secondo alcune ipotesi molto dibattute, il cromosoma Y si starebbe impoverendo sempre di più e prima o poi potrebbe sparire, portando a profondi cambiamenti nella riproduzione della nostra specie.
Un passo indietro, cosa sono i cromosomi
Un cromosoma è formato da un’intera catena di DNA e da un gruppo di proteine che lo rendono stabile. Questa catena è costituita da tanti pezzetti (sequenze) che delimitano i geni contenenti le istruzioni per produrre le proteine, che a loro volta insieme alle molecole formano le cellule e i tessuti degli organi. Gli individui sono quasi tutti diversi in buona parte per via dei cambiamenti che si verificano nel loro codice genetico, spesso a causa di mutazioni dovute a errori casuali di trascrizione del DNA quando questo viene ereditato dalle nuove cellule.
Tendiamo a immaginare i cromosomi come piccole capsule che contengono al loro interno il DNA, ma in realtà un cromosoma passa buona parte della propria esistenza nel nucleo in una forma piuttosto disordinata che ricorda quella di un piatto di spaghetti. Solo quando avviene la riproduzione cellulare i cromosomi si organizzano in piccole matasse, in modo da avere una struttura più resistente e adatta per la loro duplicazione.
Rappresentazione schematica dei cromosomi nel nucleo di una cellula, a sinistra, e disposizione dei cromosomi a coppie (“cariotipo”) durante la riproduzione cellulare, a destra (Zanichelli, Wikimedia)
Il genoma umano, cioè l’intero insieme di geni che determinano come è fatto ciascuno di noi, è raccolto in 23 paia di cromosomi: queste sono presenti in praticamente tutte le cellule dell’organismo, che contengono quindi ognuna una copia di tutto il materiale genetico. Naturalmente ogni cellula utilizza solo la parte necessaria a svolgere le proprie funzioni, quindi per esempio una cellula del fegato utilizzerà i geni che riguardano quell’organo, mentre “spegnerà” tutti gli altri geni di cui non ha bisogno.
Varianti e mutazioni
Ogni coppia di cromosomi è formata da un cromosoma proveniente dalla femmina e da uno proveniente dal maschio. Due organismi non imparentati della stessa specie hanno cromosomi pressoché identici, ma se li si analizza con maggiore attenzione a livello genetico si possono notare piccole varianti in alcune sequenze del loro DNA. Queste mutazioni nel codice possono fare una grande differenza in come appare e funziona un organismo rispetto a un altro. Alcune differenze sono più evidenti, come il colore degli occhi o dei capelli, altre sono nascoste e possono riguardare il rischio di essere più esposti a certe malattie.
Le mutazioni sono il frutto di cambiamenti o errori di trascrizione avvenuti tantissimo tempo fa e trasmesse di generazione in generazione: possono essere comuni a un’intera popolazione, oppure uniche e specifiche per ogni individuo. Si possono essere verificate negli spermatozoi o nelle cellule uovo, che si sono poi fuse insieme per portare a un nuovo organismo, oppure possono essere avvenute nelle prime fasi dello sviluppo. In un modo o nell’altro, queste mutazioni diventano parte integrante del materiale genetico di un individuo e saranno presenti in tutte le cellule, costituendo in alcuni casi nuove informazioni genetiche che faranno funzionare in un modo lievemente diverso alcuni tipi di cellule.
X e Y
Nei mammiferi placentati (cioè dotati di una placenta che consente all’embrione di nutrirsi e respirare nella sua fase di sviluppo) e in alcuni altri animali ci sono due cromosomi che si distinguono dagli altri: X e Y. Sono cromosomi sessuali (“eterosomi”) e, come suggerisce il nome, sono responsabili della determinazione del sesso di un individuo (si distinguono quindi da tutti gli altri cromosomi che sono detti “autosomi”). Mentre le coppie normali di cromosomi contengono gli stessi geni, gli eterosomi contengono ciascuno geni specifici che determinano i caratteri legati al sesso.
Capire che esistessero cromosomi sessuali non fu semplice. Il primo ad accorgersi del caso particolare del cromosoma X fu il biologo cellulare tedesco Hermann Henking, che nel 1891 si era accorto del particolare comportamento in un insetto di un cromosoma che non prendeva parte a un processo di divisione cellulare (meiosi). Non essendo sicuro di che cosa avesse osservato, Henking lo aveva chiamato “elemento X” e solo in seguito divenne chiaro che si trattava effettivamente di un cromosoma, che conservò quindi quel nome: X.
Da quell’incognita si sarebbe generato uno dei più grandi fraintendimenti della genetica. La maggior parte delle persone è infatti convinta che il cromosoma X sia chiamato così per via della sua somiglianza alla lettera X, ma in realtà come abbiamo visto i cromosomi appaiono informi nel nucleo e si organizzano solamente al momento della riproduzione cellulare.
All’inizio del Novecento fu proposto per la prima volta che il cromosoma X fosse coinvolto nella determinazione del sesso, ma con la scorretta ipotesi che determinasse il sesso maschile. Le cose cambiarono nel 1905 quando la genetista statunitense Nettie Stevens identificò il cromosoma Y. Sapendo che i cromosomi funzionano in coppia, ipotizzò che Y fosse il compagno di X, scoperto quattordici anni prima. Per questo motivo decise di chiamarlo Y, semplicemente perché nell’ordine alfabetico veniva dopo X, e non per via della sua forma che solo con molta fantasia ricorda quella della lettera.
La scoperta del cromosoma Y smontò l’ipotesi che fosse il cromosoma X a determinare il sesso maschile. La conferma arrivò con gli studi del biologo statunitense Theophilus Painter, che all’inizio degli anni Venti del secolo scorso dimostrò che sono i cromosomi X e Y a determinare il sesso, in base alla presenza o meno di Y.
Riproduzione
Negli spermatozoi e nelle cellule uovo non ci sono coppie di cromosomi come nella maggior parte delle altre cellule, ma una sola copia di ogni cromosoma. In questo modo, dalla loro unione nel processo di fecondazione si ottengono cellule che contengono una copia di cromosomi provenienti dalla femmina e una copia dal maschio. Dalla prima si avrà sempre un cromosoma X, mentre dal secondo ci sarà la stessa probabilità di avere un cromosoma X o Y. È quindi il maschio a determinare il sesso, ma come ciò avvenga di preciso rimase un mistero per molti anni.
(Zanichelli)
Le risposte arrivarono nel 1990 quando fu identificato per la prima volta il gene SRY (dalle iniziali di “sex region on the Y”), che innesca i meccanismi che portano allo sviluppo maschile nell’embrione. A 12 settimane circa dal concepimento, SRY interviene sul funzionamento di altri geni che regolano lo sviluppo delle cellule che costituiranno poi i testicoli. La loro presenza induce la produzione degli ormoni maschili (come il testosterone), che nel corso della gravidanza condizioneranno lo sviluppo degli altri tratti maschili.
Quella scoperta fu molto importante per capire i meccanismi di differenziazione, ma portò anche a un’altra constatazione: il cromosoma Y contiene pochissime altre informazioni, se confrontato con il suo compagno X. Si stima che il cromosoma X contenga infatti un migliaio di geni che fanno un sacco di cose, non solo legate al sesso, mentre invece il cromosoma Y contiene circa 55 geni e molto altro materiale genetico che allo stato delle attuali conoscenze non fa praticamente nulla. E questo ha diverse implicazioni.
La più evidente è che i maschi fanno ampiamente affidamento sul cromosoma X proveniente dalla femmina per lo sviluppo di alcune funzionalità, semplicemente perché quelle istruzioni non sono disponibili anche sul cromosoma Y. Non è una cosa da poco: significa che per alcune funzionalità non ci sono alternative e questo spiega perché certe condizioni genetiche riguardano quasi esclusivamente gli individui di sesso maschile. Negli individui di sesso femminile la presenza di due cromosomi X fa sì che ci sia un’alternativa, o meglio, che ogni cellula utilizzi le istruzioni provenienti dalla femmina o dal maschio, disattivando le altre.
Un’altra conseguenza piuttosto evidente è che un solo cromosoma X è sufficiente per avere le istruzioni necessarie per lo sviluppo di alcune caratteristiche e funzioni dell’organismo. E proprio partendo da questa constatazione alcuni anni fa la genetista australiana Jenny Graves iniziò a chiedersi come mai il cromosoma Y fosse fatto in quel modo e in sostanza fosse più povero del suo compagno X.
La scomparsa di Y
Studiando la grande varietà di modi in cui viene determinato il sesso tra le specie del regno animale, Graves ipotizzò che fino a qualche tempo fa X e Y non avessero particolari differenze, se consideriamo una scala del tempo molto ampia come quella dei processi evolutivi. Dal confronto con altre specie, Graves calcolò che il cromosoma Y avesse perso centinaia di geni rimanendo con 55 nel corso di 166 milioni di anni, quindi al ritmo di circa cinque geni ogni milione di anni. Mantenendo quella cadenza, ipotizzò che entro 11 milioni di anni il cromosoma Y avrebbe perso anche i restanti 55 geni diventando del tutto inutile, anche nei meccanismi di determinazione del sesso.
Graves pubblicò il proprio studio sulla rivista scientifica Nature nel 2002 e tornò sull’argomento, con nuove ricerche e analisi, negli anni seguenti suscitando grande clamore e aprendo un dibattito molto agguerrito tra chi studia i cromosomi. Il confronto si fece in più occasioni acceso, con conferenze in cui Graves difendeva la propria ipotesi della scomparsa del cromosoma Y da chi invece provava a confutare le sue teorie. Fu per esempio segnalato che non si poteva immaginare una degradazione lineare nel tempo del cromosoma Y, la cui perdita di geni era magari avvenuta in modi più netti nel corso dell’evoluzione per poi interrompersi.
Il dibattito scientifico è ancora oggi aperto perché non si è raggiunto un consenso sulla base dei dati e degli studi disponibili, ma c’è comunque una certa tendenza verso un’ipotesi più tranquillizzante per gli affezionati al cromosoma Y. È basata su uno studio pubblicato nel 2014, sempre su Nature, che segnala come il cromosoma si sia stabilizzato insieme al resto del corredo genetico degli esseri umani. Nei 25 milioni di anni da quando è iniziata la differenziazione dalle altre scimmie, la nostra specie ha di fatto perso pochissimi geni. Non ci sarebbero quindi elementi per ritenere che il cromosoma Y continui a perdere pezzi e a rimpicciolirsi fino a diventare completamente irrilevante.
Graves e altri genetisti non sono però completamente convinti, anche perché esistono già oggi alcune specie di mammiferi che hanno perso il cromosoma Y e continuano comunque a esistere. Studiando i roditori appartenenti alla specie Tokudaia osimensis, per esempio, un gruppo di ricerca ha scoperto che buona parte dei geni un tempo su Y è diventata disponibile su altri cromosomi di questi animali, ma non ha invece trovato tracce del gene SRY che innesca la differenziazione sessuale nell’embrione, né geni che svolgano la medesima funzione.
In uno studio pubblicato su PNAS nell’autunno del 2022, il gruppo di ricerca ha in compenso segnalato di avere trovato alcune sequenze genetiche presenti solamente nel genoma dei maschi e non delle femmine di quei roditori. Analizzandole hanno scoperto che probabilmente quelle minime differenze intervengono sul gene SOX9 (che non si trova nei cromosomi sessuali), che ha un ruolo fondamentale nella determinazione dei maschi nei vertebrati e che viene solitamente attivato dopo l’intervento di SRY. In altre parole: in alcune specie prive del cromosoma Y potrebbe esserci un meccanismo alternativo per portare alla differenziazione sessuale.
L’eventuale scomparsa del cromosoma Y negli esseri umani potrebbe quindi essere accompagnata da altri cambiamenti, tali da offrire un sistema alternativo per la determinazione del sesso. Potrebbero però esserci conseguenze, per esempio legate all’evolversi di più sistemi in diverse parti del mondo. In milioni di anni questa circostanza potrebbe portare alla comparsa di nuove specie di esseri umani, come del resto è avvenuto in quei gruppi di roditori. È una prospettiva affascinante, ma nel campo dell’evoluzione con le sue innumerevoli variabili è davvero difficile fare previsioni.
Vie alternative
La recente mappatura completa delle informazioni genetiche contenute nel cromosoma Y potrebbe offrire nuovi spunti, ma questa storia ci ricorda soprattutto che in natura ci sono modi molto diversi tra loro per la determinazione del sesso. Il risultato è quasi sempre lo stesso, cioè una distribuzione relativamente omogenea di maschi e femmine, ma il modo per arrivarci può essere spesso creativo e al di là della più fervida immaginazione di qualche autore di romanzi fantasy o distopici.
La determinazione del sesso nei rettili e negli uccelli è su base genetica come la nostra, ma è la femmina e non il maschio a essere determinante. Una coppia di cromosomi Z porta a un maschio, di conseguenza le cellule sessuali dei maschi possono dare solo un cromosoma Z (come abbiamo visto, nelle cellule sessuali i cromosomi non sono in coppia), mentre le femmine sono ZW e quindi possono dare o un cromosoma Z o uno W. Anche in questo caso c’è una probabilità del 50 per cento che il nuovo individuo sia maschio o femmina, proprio come nei mammiferi.
In alcune specie di insetti come api e formiche le cose funzionano diversamente. La riproduzione spetta a un’unica femmina, la regina, che può decidere se usare o meno lo sperma prodotto dal gruppo di maschi fertili che le fanno compagnia. Se lo utilizza produce uova dalle quali nascono solo femmine, se non lo utilizza depone uova dalle quali nasceranno solamente maschi. Questo significa che i maschi di formica derivano solo da una femmina, la regina, e mai da un maschio: il loro intero corredo genetico deriva da un unico genitore. Per un sistema complesso che si basa sull’attività di migliaia di individui, come un formicaio o un alveare, è un importante vantaggio perché dà alla regina la possibilità di espandere il più possibile la colonia con nuova prole che lavorerà per cercare cibo, conservarlo, estendere il nido e curarsi dei nuovi nati.
Due individui di pesci pagliaccio (AP Photo/Sam McNeil)
Ci sono poi individui di alcune specie che possono produrre sia cellule sessuali maschili sia femminili, di conseguenza possono riprodursi per conto proprio (ermafroditismo). In alcune specie questa capacità si presenta simultaneamente e prevede quindi la presenza contemporanea di organi (gonadi) maschili e femminili; in altre specie l’ermafroditismo è invece sequenziale, cioè l’individuo è per una fase della propria vita di un sesso e poi di un altro. Nel caso di particolari condizioni genetiche, ci possono essere casi di ermafrotidismo in moltissime specie, compresa la nostra.
I cosiddetti pesci pagliaccio, resi famosi dal film Pixar Alla ricerca di Nemo, alla nascita sono tutti maschi, poi man mano che crescono e maturano diventano femmine. Fanno una vita particolare in gruppi molto gerarchici dove comandano solamente un maschio e una femmina, gli unici che si riproducono. Se muore la femmina dominante, il maschio dominante cambia sesso e diventa la nuova femmina dominante, mentre un nuovo maschio prende il suo posto.
Tra gli animali ci sono anche quelli che fanno completamente a meno della genetica per la determinazione del sesso. In varie specie di tartarughe e alligatori, per esempio, il sesso non è ancora determinato al momento della posa delle uova e solo in un secondo momento avviene la differenziazione in base alla temperatura intorno al nido. Sopra una certa temperatura si ottiene un maschio, mentre al di sotto di quel limite una femmina. Un’ipotesi è che in questo modo nascano individui di sesso diverso in diversi periodi dell’anno, in modo da favorire la resistenza a particolari condizioni climatiche, ma non tutti sono convinti e la determinazione del sesso in base alla temperatura è tra le più studiate, anche per comprendere eventuali effetti sulle specie dovuti all’aumento della temperatura media globale come conseguenza del riscaldamento globale.