ISPI
Non regge la tregua in Sudan dove proseguono i combattimenti tra i due generali rivali. Ma il rischio è che le potenze regionali prendano posizione.
È sempre più preoccupante la situazione in Sudan dove non ha retto il cessate-il-fuoco concordato tra le due fazioni protagoniste di scontri armati da ormai cinque giorni. Migliaia di persone stanno fuggendo dalla capitale Khartoum, bersaglio di ripetuti bombardamenti e detonazioni attorno all’aeroporto, i quartieri della difesa e altre sedi strategiche. L’esplosione di violenze tra l’esercito guidato da generale Abdel-Fattah Al-Burhan e i paramilitari a capo del Consiglio sovrano che guida il paese, e paramilitari delle Forze di sostegno rapido (Rsf) guidate dal numero due della giunta, Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedti, avrebbero provocato già oltre 250 vittime e tremila feriti. Ma si tratta di un bilancio difficile da verificare e che molti osservatori temono essere solo parziale, anche a causa del fatto che gli scontri armati interessano molte zone rurali del paese da cui è difficile reperire informazioni. Nelle ultime ore anche gli ospedali sono finiti nel mirino dell’artiglieria e su Facebook il sindacato dei medici sudanese riferisce che “dei 59 ospedali di base nella capitale e negli stati federali sudanesi adiacenti alle aree di conflitto, 39 sono fuori servizio: nove perché sono stati bombardati e 16 dopo essere stati evacuati forzatamente”.
Khartoum “città fantasma”?
La situazione dell’insicurezza a Khartoum ha provocato nelle ultime ore un esodo di migliaia di persone a bordo di pullman e macchine, ma a causa della chiusura dell’aeroporto internazionale, piani di evacuazione per portare in salvo i cittadini stranieri presenti nella capitale sono al momento impossibili da realizzare. Documenti interni delle Nazioni Unite visionati dal Guardian descrivono uno “scenario da incubo” che sembra aver colto l’organizzazione impreparata. Nel primo giorno di combattimenti, tre operatori del Programma alimentare mondiale (Pam) sono rimasti uccisi in Darfur e l’organizzazione ha annunciato una sospensione temporanea delle proprie operazioni nell’area, tra le più povere dell’Africa e teatro di un lungo conflitto civile. “Khartoum è diventata una città fantasma”, dice Atiya Abdalla Atiya, segretario del sindacato dei medici sudanesi, ancora nella capitale, dove i civili che non riescono a fuggire e sono barricati in casa per paura di proiettili vaganti. Intanto negli scaffali dei supermercati, presi d’assalto, scarseggiano beni di prima necessità e molte persone – a causa dei danni alla rete idrica – lamentano mancanza di acqua potabile.
Ospedali nel mirino?
Tra i due generali che si contendono il controllo sul terzo paese più esteso del continente, ricco di risorse e minerali preziosi, che stava faticosamente tentando di uscire dal dominio militare dopo il rovesciamento dell’ex presidente-dittatore Omar Hassan al Bashir, la rottura sembra totale. In un’intervista al Financial Times rilasciata dopo lo scoppio delle ostilità, Dagalo, vicepresidente sudanese e comandante delle Rsf, ha accusato le forze armate di prendere di mira ospedali e obiettivi civili, definendo il suo rivale “il leader di una banda di islamisti radicali” che vogliono instaurare una dittatura militare nel paese. In un’intervista separata, il suo oppositore Abdel Fattah al-Burhan ha accusato le Rsf di “violenza indiscriminata”.
Entrambi – alleati nella rivolta contro al Bashir – sono “ugualmente complici del crimine politico più recente del paese: il colpo di stato del 2021” scrive su Twitter Amjed Farid, ex consigliere di Hamdok, secondo cui il loro attuale conflitto “non è altro che una battaglia per spartirsi il bottino”.
Rischio spill-over?
A quasi una settimana dall’inizio degli scontri e senza prospettive di una tregua, il timore di molti osservatori è che alcuni attori regionali possano decidere di prendere le parti dell’uno o dell’altro schieramento, contribuendo ad alimentare un conflitto di lunga durata. È indubbio infatti che Il Cairo guardi con crescente apprensione a ciò che sta accadendo in Sudan, dove il governo di Abdel Fattah Al Sisi ritiene al Burhan un alleato affidabile (al contrario di Dagalo), anche a livello regionale, per contenere le mire dell’Etiopia sulle acque del Nilo. “C’è una profonda sfiducia nelle intenzioni di Hemedti”, osserva Wahid Hanna, “in gran parte perché è un capo milizia e quindi esterno alle gerarchie militari convenzionali, ma anche a causa dei suoi presunti legami commerciali con la Russia, che ha corteggiato con la prospettiva di un accesso militare a Port Sudan”. Un’ipotesi sgradita al Cairo che non vorrebbe vedere una presenza militare esterna in quello che da sempre l’Egitto considera come il proprio ‘cortile di casa’. Anche l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti sono attori importanti nel paese, considerato parte del Medio Oriente e come tale sfera di influenza per entrambi. Se negli anni Hemedti ha guadagnato consensi inviando migliaia di combattenti in Yemen con la coalizione guidata dai sauditi e dagli Emirati, anche Burhan è stato accolto con favore. Per questo, e per scongiurare un conflitto che divamperebbe di fronte alle coste saudite, mettendo a repentaglio il transito sul Mar Rosso, Riad è stata particolarmente attiva nel tentativo di far calmare le acque. Finora, a quanto pare, i suoi tentativi non hanno avuto successo.